TikTok, ovvero una manipolazione psicologica potenziata GUERRA, TECNOLOGIA

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    Un’arma chiamata TikTok

    Progresso tecnologico e globalizzazione hanno trasfigurato gli affari militari, in particolare la sfera delle guerre ibride, rendendo più semplice, economica e veloce la conduzione di operazioni (dis)informative e psicologiche. La destabilizzazione a portata di clic.

    Il mondo è diventato un villaggio globale. Le opinioni pubbliche sono diventate delle grandi masse di consumatori. Indottrinare, polarizzare e radicalizzare non è mai stato facile come oggi, epoca dell’abbattimento dei confini fisici e dell’interconnessione 24/7. È l’era delle guerre mondiali da remoto.

    Piattaforme sociali, applicazioni di messaggistica istantanea e metaverso, le più potenti espressioni dell’era di Internet, hanno giocato e stanno giocando un ruolo-chiave nel potenziamento di strumenti ibridi pre-esistenti, nonché nell’amplificazione dei loro effetti, contribuendo a creare degli ambienti permeati di caos, conflittualità e confusione. Anarchia produttiva al servizio delle guerre ibride totali.

    Le piattaforme sociali globali, come Facebook, Instagram e Twitter, hanno dimostrato il loro potenziale bellico ibrido a più riprese e in diversi contesti: dalle interferenze elettorali durante le presidenziali statuniensi del 2016 alle campagne disinformative in Occidente dell’Internet Research Agency. E non sono le sole vulnerabili ai tentativi di militarizzazione. Perché TikTok sembra premettere e promettere risultati financo maggiori.

    Tik Tok... e il cervello è ko!
    TikTok è la rete sociale (social network) più in voga tra gli internauti delle generazioni Y e Z di tutto il mondo, ma in particolare dei Paesi occidentali. Nata nel 2016 da un’idea del visionario software engineer Zhang Yiming, che è anche il fondatore della casa madre – ByteDance –, TikTok non è che la versione per il mercato internazionale di Douyin, una delle applicazioni di condivisione video più scaricate e utilizzate nella Repubblica Popolare Cinese.

    In pochi anni, grazie ad una campagna pubblicitaria accattivante e ad un “algoritmo anti-algoritmico”, TikTok è divenuta una delle applicazioni più utilizzate del pianeta. Degna sfidante delle piattaforme sociali globali di origine occidentale, come la famiglia Meta di Mark Zuckerberg, TikTok ha fatto ingresso nel 2023 nelle vesti di quarta app con il maggior numero di utenti attivi mensilmente – un miliardo –, dietro a Facebook – 2,9 miliardi –, YouTube – 2,2 miliardi – e Instagram – 1,4 miliardi.

    Il successo di TikTok è primariamente legato al possesso di suddetto algoritmo anti-algoritmico, che, permettettendo la popolarizzazione istantanea dei contenuti, al di là del tema trattato e del numero di seguaci (follower) dell’utente, è in grado di “trasformare persone comuni in star dell’internet”. Il sogno di ogni figlio legittimo della società dello spettacolo. La forza delle tesi di Thorstein Veblen sui proletari ossessionati dai simboli di status. L’avveramento della profezia di Andy Warhol sul capitalismo che avrebbe dato a chiunque quindici minuti di celebrità.

    L’algoritmo malleabile e il funzionamento intuitivo sono i segreti del successo di TikTok, l’app divenuta fenomeno culturale, così come sono due dei motivi del declino delle maggiori piattaforme sociali globali di origine occidentale, in particolare Facebook. Ma come è vero che la famiglia Meta manipola l’algoritmo col pretesto di contrastare la disinformazione e di fermare i discorsi d’odio, lo è altrettanto che la prole di ByteDance non ha meno ombre in materia di operazioni psicologiche, guerre informative e raccolta dati per usi impropri.

    La malleabilità è ciò che può rendere l’algoritmo di TikTok tanto un ascensore sociale, per aspiranti influencer alla ricerca della monetizzazione e per imprenditori a caccia di nuovi clienti, quanto un’arma, ché nelle mani degli specialisti di ByteDance è una sorta di “super-psyop” multiuso e multiscopo. Tra gli scopi, oltre alla sorveglianza digitale – nella sinosfera – e alla raccolta dati – in tutto il mondo –, risulta e risalta l’intorpidimento mentale.

    Gli studi concordano: TikTok è stato ingegnerizzato in maniera tale da creare dipendenza. Negli Stati Uniti, dove TikTok vantava 80 milioni di utenti attivi mensilmente a inizio 2023, i rapporti sull’analisi dei dati di ByteDance parlano di un’utenza che trascorre mediamente 89 minuti al giorno sull’applicazione. Tempo passato a “consumare contenuti raccomandati dall’algoritmo”, che agiscono sulle funzioni cognitive come una sorta di “cocaina digitale”.

    L’algoritmo di TikTok è unico nel modo in cui apre all’applicazione le porte dei lati più intuitivi di un individuo, come i gusti musicali e le preferenze umoristiche, ma anche i più intimi e solitamente noti ad una ristretta cerchia di persone, quali potrebbero essere l’orientamento sessuale e lo stato di salute emotivo-comportamentale. Molto più di altre piattaforme sociali, in sintesi, TikTok è in grado di produrre una lettura mentale, e da remoto, dell’utilizzatore.

    L’esito delle letture mentali di TikTok è, nella maggior parte dei casi, un “loop di dopamina” di natura pavloviana. Spiegato altrimenti: l’applicazione suggerisce all’utente la visione di contenuti che, in quanto raccomandati sulla base di un’analisi propriocettiva a distanza, creano assuefazione e gratificazione. Stati emotivi che incidono sulla sensibilità relazionata allo scorrere del tempo, rendendo possibile che alcuni spendano un’ora anziché dieci minuti sull’app e che altri sviluppino vere e proprie forme di dipendenza.

    Come altre piattaforme sociali globali di networking, in particolare Facebook e Instagram, TikTok è suscettibile di esercitare influenze perniciose su alcune delle più importanti funzioni cognitive, quali ad esempio la memoria, la percezione e l’attenzione. Ma a differenza dei predecessori, dato “lo streaming ininterrotto di video lunghi dai 15 ai 30 secondi […] e il fatto che gli utenti spendono mediamente delle ore su TikTok”, i danni alle capacità di attenzione e concentrazione sono molto più gravi.

    Le prime ricerche condotte sull’utenza di TikTok hanno constatato la presenza generalizzata di problematiche alla memoria di breve termine e alla capacità di attenzione. La metà degli utilizzatori, nel 2022, dichiarava di sperimentare “stress” alla visione di video superiori al minuto di lunghezza. Il cervello messo in stato di sonno paradossale.

    Se le guerre cognitive sono i conflitti con al centro l’egemonizzazione delle menti della società del paese rivale, che può significare addormentamento come può significare logoramento, TikTok è sicuramente l’applicazione più adatta allo scopo: una super-psyop dalla forma di una fabbrica, nelle cui catene di montaggio si depotenziano cervelli a mezzo di iniezioni digitali di dopamina.

    L'algoritmo "aggressivo" e i rapporti con Pechino
    L’algoritmo di TikTok funziona come qualsiasi altro algoritmo di un social network: esso salva le informazioni dell’utente riguardanti i suoi contatti, i video visualizzati, le ricerche effettuate e altro ancora. In particolare TikTok classifica l’utente in base a parole chiave della didascalia, suoni, hashtag, effetti utilizzati, contenuti pubblicati, luogo di pubblicazione, preferenze linguistiche, tipo di dispositivo mobile. L’algoritmo di TikTok cerca sempre di offrire video di interesse a ogni utente e utilizza l’attività precedente per determinare il contenuto da offrire nella ricerca.

    Chiaramente, così come avviene per altri social, TikTok effettua una selezione dei contenuti caricati in base a normative predefinite, ovvero “a condizione che non violino le leggi locali” ma questi possono essere consentiti sulla piattaforma, ricercabili e visualizzati nei feed sebbene non idonei per la raccomandazione. Si tratta di contenuti riguardanti la sicurezza dei minori, sport pericolosi e acrobazie, contenuti apertamente sessualizzati, riguardanti tabacco e prodotti alcolici, contenuti violenti, spam, contenuti non autentici o fuorvianti oppure non originali, di bassa qualità e con codice Qr.

    TikTok quindi raccoglie un’enorme quantità di dati sui suoi utenti, e alcuni di essi hanno sollevato alcune perplessità, come ad esempio la funzione che legge regolarmente i “copia e incolla” eseguiti dall’utente sul suo dispositivo. Qualcosa che, a onor del vero, viene fatto anche da altri tra cui Reddit, LinkedIn, e le app di quotidiani come il New York Times e BBC News.

    Questa raccolta dei dati è a tutti gli effetti eccessivamente invadente, e perfino aggressiva in quanto alcune scelte di privacy effettuabili dall’utente, richiedono più di una conferma: l’app, ad esempio, richiede continuamente l’accesso ai contatti dopo che l’utente ha deciso di non condividerli.

    Quello che è più preoccupante, però, è la connessione tra TikTok e il governo cinese. Nonostante la società che gestisce il social, la ByteDance, abbia sempre affermato che i server che immagazzinano i dati siano al di fuori della Cina (precisamente negli Stati Uniti), è stata notata una connessione dell’app a un server nella Cina continentale, gestito da Guizhou BaishanCloud Technology Co. Ltd.

    Inoltre esiste la possibilità, per legge, che il governo cinese abbia accesso non solo all’algoritmo, ma anche agli stessi dati raccolti: la legge cinese sull’intelligence nazionale del 2017 afferma infatti che tutte le organizzazioni e i cittadini devono “sostenere, assistere e cooperare” con gli sforzi dell’intelligence nazionale.

    Quindi è molto difficile pensare che davanti a una richiesta del Politburo la società ByteDance si opponga: pena la sua chiusura dietro un qualsiasi pretesto. Trovarsi su TikTok, o su un’altra app social cinese, significa trovarsi in un ecosistema digitale diverso, e il livello di rischio a cui si è esposti dipende da quello che si pubblica, dai propri interessi, o semplicemente dal ruolo che si ha nella società. In sostanza, se si è coinvolti in qualcosa di più delicato o si discute di argomenti delicati, si diventa molto interessanti per il governo cinese, e molto rapidamente.

    La pervasività dello Stato e la campagna di raccolta dati
    Pensare che un’impresa cinese, benché privata, sia completamente avulsa dal controllo statale è quantomeno ingenuo, se non in malafede. La stessa gestione degli algoritmi per l’Intelligenza Artificiale (Ai) utilizzata anche dai social network per indirizzare i contenuti (e raccogliere dati), è subordinata al governo cinese.

    A marzo 2022 è entrata in vigore la prima legge al mondo che disciplina i codici per l’Ai che, sostanzialmente, rende di pubblico dominio gli algoritmi usati in qualsiasi piattaforma tecnologica. Una legge nata dall’esigenza di controllare alcuni problemi come la diffusione di notizie false o arginare alcune non meglio definite “attività illegali”. Il Dipartimento Statale per le Informazioni su Internet cinese è diventato così responsabile della pianificazione generale e del coordinamento della governance nazionale dei servizi di raccomandazione algoritmica – intendendo con questi termini l’Ia che, ad esempio, consiglia gli acquisti sul web – e delle relative attività di supervisione e gestione.

    Sulla base dei rispettivi compiti, i dipartimenti competenti del Consiglio di Stato, come le telecomunicazioni, la pubblica sicurezza e la regolamentazione del mercato, sono responsabili degli sforzi per supervisionare e gestire i servizi di raccomandazione algoritmica. Pechino ha stabilito di creare un registro pubblico dei codici algoritmici, dove le società sono obbligate a descriverne il funzionamento, sia per censirli, sia per avere un controllo diretto sui meccanismi di questa tecnologia che utilizza l’Ia. Detto in altri termini, la Cina ha reso pubblico uno strumento tecnologico dirompente come gli algoritmi che governano l’Intelligenza Artificiale per poterlo controllare meglio. Lo Stato, quindi, potrà intervenire direttamente sugli obiettivi degli algoritmi ordinandone la modifica in caso questi contrastino con i valori del Politburo.
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    Capiamo quindi perché, sotto l’amministrazione Trump, si era resa la necessità del bando di compagnie cinesi come Huawei e perché lo stesso segretario di Stato Mike Pompeo avesse affermato che gli utenti di TikTok rischiano che i loro dati possano finire “nelle mani del Partito comunista cinese”.

    TikTok, ovvero una manipolazione psicologica potenziata
    Nel 2020 è passata un po’ sottotraccia una notizia che riguarda la raccolta di informazioni personali messa sistematicamente in atto da parte della Cina: stiamo parlando del caso Zhenhua Leaks, che alcuni hanno definito una “Cambridge Analytica sotto steroidi”.

    La società cinese Zhenhua Data, fondata nel 2018 a Shenzhen, è di proprietà di China Zhenhua Electronics Group, che a sua volta appartiene allo Stato tramite la China Electronic Information Industry Group (Cetc), una società di ricerca militare. Questa ha raccolto un database contenente informazioni riguardanti 650mila associazioni e 2,4 milioni di persone che includono date di nascita, indirizzi, stato civile, fotografie, associazioni politiche, parentele e identità social. Tutti dati raccolti “spiando” account Twitter, Facebook, LinkedIn, Instagram e, ovviamente, anche TikTok.

    Quello che forse è più interessante in questa vicenda è che per ogni persona schedata è stato creato un codice e una serie di connessioni e interessi ad essa correlati: un’organizzazione estremamente metodica che lascia intendere la volontà di avere uno schedario organizzato sistematicamente e quindi di pronta consultazione, cosa che quindi si differenzia dallo scandalo Cambridge Analytica.

    Uno strumento per la Info War cinese, utilizzante disinformazione e propaganda, che in questo modo è altamente “centrata” sugli obiettivi differenziando i contenuti in base all’audience a cui sono rivolti. Una “targetizzazione” che scende nel particolare per alcuni ambiti individuando influencer da utilizzare per andare incontro agli interessi dei singoli o gruppi di singoli (avendo come discriminante il genere, gli hobby, la professione, ecc).


    Un'app a prova di guerra
    Un algoritmo per migliore amico è ciò di cui uno stratega ibrido abbisogna per portare avanti operazioni psicologiche, informative e disinformative. Ed è esattamente ciò che viene offerto da TikTok, il cui algoritmo viral-friendly è stato utilizzato per fini bellici da Russia e Ucraina, da quest’ultima più che dalla prima a onor del vero, nel corso del loro conflitto del 2022-23.

    L’assiduità con cui le armate digitali del Cremlino e del Marinskij hanno fatto ricorso all’applicazione, sia per disinformare sia per popolarizzare le loro narrazioni, ha fatto sì che la grande stampa ribattezzasse quella d’Ucraina come la “prima guerra combattuta su TikTok”. Entrambi i belligeranti, ma gli ucraini più dei russi, hanno saputo sfruttare il potere dell’algoritmo viral-friendly, delegando agli influencer l’onere di produrre contenuti sulla guerra e ai troll il compito di confondere e traviare.

    La trincea digitale dell’Ucraina, che ha mobilitato l’intero settore delle tecnologie dell’informazione, ha coinvolto utenti ordinari e popolari, di ogni età, ed è stata guidata da una serie di obiettivi: vincere la guerra delle narrazioni, suscitare empatia, creare immedesimazione, trasportare gli spettatori nella quotidianità-sotto-le-bombe, il tutto condito con una certa ilarità. Ma c’è anche chi ha utilizzato TikTok per diffondere video su come produrre armi artigianali e/o su come sostenere battaglie corpo a corpo. Corsi intensivi per menti ad apprendimento veloce.

    L’utilizzo intelligente di TikTok (e di Instagram) ha consentito a Volodymyr Zelenskij di costruire un brand personale, nonché di entrare nella storia nelle vesti di primo presidente online in tempo di guerra, come colui che si è rifugiato nei social network anziché nei bunker. E ha svolto un ruolo-chiave nella fabbricazione di consenso alla causa ucraina presso le generazioni Y e Z dei paesi occidentali, abbattendo barriere culturali e generando assonanze politiche.
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