La panchina di Mariella Forever

Fabrizia Ramondino nel giardino incantato Torna in libreria per Fazi «Guerra di infanzia e di Spagna»

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    Fabrizia Ramondino nel giardino incantato
    Torna in libreria per Fazi «Guerra di infanzia e di Spagna»

    L’infanzia luminosa e fantastica di Fabrizia Ramondino è quella degli anni vissuti in Spagna. Prima delle ombre della guerra, del ritorno a Napoli e del rifugio in costiera sorrentina, di cui racconterà in Althenopis – il suo libro più letto e più amato – la scrittrice napoletana ha il tempo di assaggiare la vita attraverso l’universo fiabesco e sensuale di Maiorca, raccontato in Guerra di infanzia e di Spagna. Pochissimi scrittori riescono, come Fabrizia Ramondino, a restituire con assoluta autenticità pensieri e gesti dell’infanzia, non rievocata come un tempo lontano, ma anzi condizione esistenziale ancora bruciante nelle pieghe dell’io. Per questo è assai meritoria l’impresa di Fazi, che riporta in libreria, con una bella prefazione di Nadia Terranova, il romanzo pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 2001.

    Fabrizia arriva in Spagna a pochi mesi. Il padre diplomatico è tornato dalla Cina a Napoli nel 1934, ma già nel 1937 deve ripartire, stavolta con la famiglia, per Maiorca, dove resta fino al 1943 e dove nascono gli altri due figli, Giancarlo e Annalisa. La casa di Son Batle, per la scrittrice, è materia di diverse rivisitazioni letterarie, a partire dai racconti di Storie di patio (1983), una parte dei quali confluisce nel romanzo del 2001. In Guerra di infanzia e di Spagna l’alter ego di Fabrizia è la bambina Titita, che racconta in prima persona la sua esperienza del mondo, a partire dalla casa, dal giardino e dai campi, territorio di infiniti giochi con il fratello Carlito e poi anche con la sorellina. Un territorio incantato ma anche feroce, dove prevale il legame animistico con la terra, gli animali, la natura tutta. Il mondo dei grandi è invece distante e spesso irraggiungibile appare la mamma, che «si vestiva di fremiti come una falena».




    Più presente e carnale il legame con la tata Dida, sapiente e pratica, dispensatrice di affetto e nutrimento. Capace di magie quotidiane, per esempio rendere vivi gli oggetti, come i soldi accuratamente piegati in seno, «caldi, fragranti come caldarroste». La tata è il grande abbraccio protettivo di cui non si dubita: dopo una dura lotta con la madre per poter andare a casa di Dida, la bambina alla fine la spunta. Solo allora Titita scende dalle braccia della donna alla quale si era attaccata e si avvia con lei, «sicura di non venire più rapita». Con i coetanei invece Titita incrocia sguardi obliqui e inquisitori: per esempio, di fronte a una bambina sconosciuta, dice, «ce ne stemmo l’una di fronte all’altra ciascuna perduta nel segreto dell’esistenza dell’altra».

    Non è un atteggiamento nostalgico quello che anima la scrittura della Ramondino quando tocca il mondo edenico di Son Batle. Piuttosto è una visione del mondo, una weltanschauung che connota tutta la sua poetica. Il punto di vista dei bambini ha qualche tratto oracolare, c’è una vista lunga, una più acuta percezione dei sensi che l’adulto non possiede o smarrisce, almeno in gran parte dei casi. Non nel suo evidentemente: anche da adulta Fabrizia è stata, ad esempio, una grande raccoglitrice di pietre, sassolini, foglie, come i bambini; ha continuato ad avere un’attenzione al minimo gesto, all’espressione dell’interlocutore, a certi sentimenti inespressi. Eppure questa sua vicinanza alla prospettiva infantile non si traduce nell’ammirazione incondizionata verso una età che la scrittrice riconosce anche capace di essere cattiva, indecente. Un’età in cui ciascun individuo può cadere preda di timori panici ed ellissi di senso. I bambini di Fabrizia Ramondino hanno una loro inconfondibile voce e vanno ascoltati, in un dialogo proficuo e paritario con l’adulto. Non c’è mai paternalismo, ma una inesauribile empatia.

    Nella quotidianità dei giochi però può capitare pure che arrivi una malattia. Titita si ammala di polmonite e durante la convalescenza gode delle attenzioni e dei regali del padre, quasi come in un fidanzamento. I doni vengono descritti uno per uno, attraverso un’attitudine elencatoria che si ripete spesso nella scrittura della Ramondino. La stanza dove la bambina è stata collocata per la cura è paragonata a una sorta di arcipelago, tutto sommato rassicurante. Del resto, la casa di Son Batle resta per tutta la vita un paradiso perduto, mentre quella di Massalubrense (in Althenopis) ha spazi assolati ma anche larghe zone d’ombra. Il vero irraggiungibile luogo della più intensa e vitalistica esperienza esistenziale è Son Batle, dove perfino il cattivo tempo ha un sapore magico: «Fuori intanto la pioggia tamburellava piano sui vetri, sembravano le dita del giardino che bussavano alla finestra».

    La seconda casa spagnola, quella di Porto Pi, che compare alla fine del romanzo, non viene amata come la prima. A Son Batle Fabrizia torna nel ’79, quasi per caso, durante una vacanza. Lo racconta nella raccolta In viaggio: «Quella prima casa è sempre stata per me, nonostante le esperienze tragiche di ogni infanzia, il paradiso perduto e l’ho rivista molte volte in sogno, vuota di abitanti e di cose, mentre ne invocavo il nome e mi disperavo».


    https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/
     
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