LEA SEYDOUX CONTAGIATA AL COVID

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    Lea Seydoux (a casa col Covid) verso la palma da attrice. In "France" è simbolo della nazione
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    Lea Seydoux poses for photographers on the red carpet at the world premiere of the new James Bond 007 film "Spectre" at the Royal Albert Hall in London, Britain, October 26, 2015. REUTERS/Luke MacGregor
    Léa Seydoux, a casa col Covid, è la grande assente di questo Festival, ma ne è la star incontrastata, con quattro film nella selezione ufficiale, “The French Dispatch” di Wes Anderson, “L’histoire de ma femme” dell’ungherese Ildiko Enyedi, “France” di Bruno Dumont, e “Tromperie” di Arnaud Desplechin, fuori concorso. Non è un azzardo pronosticare la Palma da interprete femminile per un’attrice senza frontiere (è stata anche una Bond-Girl col cervello) di sicuro talento. In più, vuoi mettere la valenza simbolica, in un mondo ancora stritolato dalla pandemia?

    Bruno Dumont nel suo “France” erige Léa Seydoux addirittura a simbolo della nazione, della sua oscenità morale ma anche di una coscienza sofferente che continua a palpitare. Lei è France Les Meurs (moeurs, che in francese indica i costumi di un Paese, si scrive diversamente ma quello è il senso). Regina della tv, è il volto su cui si consuma questa tragicommedia contemporanea sulla macchina mediatica. Lo è letteralmente, risucchiata dall’inizio alla fine del film dai piani stretti della cinepresa.

    “France” è un film raggelante, che fa del suo meglio per respingere. Come satira del cinismo tv, è tematica saccheggiata dal grande e dal piccolo schermo. Per Dumont il suo è un fotoromanzo, bizzarra definizione per un’opera con ambizioni di denuncia epocali. La tesi è che i media si sono appropriati della finzione, impoverendo il cinema che ne era il regno. Nei suoi reportage dai teatri di guerra o sui barconi dei migranti, France è il burattinaio che manovra ogni gesto, ogni espressione dei disperati.

    È una potenza, che può permettersi smorfie e gestacci in prima fila davanti a Macron, alle conferenze stampa dell’Eliseo, istigata da un’assistente leccapiedi (Blanche Gardin) che possiede un solo aggettivo - “Génial!” - e una sola massima: “Il peggio è il meglio”. L’equazione guida è spettatori=elettori. Alla domanda di una fan che l’ha intercettata alla toilette – “Me lo chiedo da sempre, lei è di destra o di sinistra?” - France risponde: “Perché, per lei fa differenza?”. In questo senso il titolo del film è intercambiabile: potrebbe chiamarsi “Italia”, “Germania”, “Spagna”..

    Fonte d’ispirazione è il saggio di un polemista assai caro a Dumont (da lui aveva già tratto i due film su Giovanna d’Arco) che nel 1905 parlava di una nuova barbarie che minaccia il mondo. Il titolo è “Grazie a un semichiaro mattino – Socialismo e Totalitarismo nell’Europa del primo Novecento”. Questo, per la cronaca, era anche il titolo provvisorio di “France”.

    Se pensiamo a “L’Humanité” o a “Ma Loute”, che hanno fatto di Dumont un vero culto cinefilo, questo è un film esoterico, troppo involuto per centrare il bersaglio. Ma è portatore di verità incontestabili. Dice, il regista, che noi giornalisti siamo tutti pedine- soffrendone, spesso- della ‘banalità del male’. Che il reale in tv diventa un alibi, a servizio della fiction maggioritaria mascherata da moralità purificatrice. Per farsi ascoltare, però, bisogna tenere gli spettatori incollati alla sedia. Molti, qui a Cannes, se ne sono andati a metà.
    https://www.huffingtonpost.it/
     
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