La panchina di Mariella Forever

JIM MORRISON TEMPESTA ELETTRICA Poesie e scritti perduti” (2002)

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    Jim Morrison: “Tempesta elettrica. Poesie e scritti perduti” (2002) – di Lorenzo Scala1panchina_653

    “Ho sempre voluto scrivere, ma ho sempre pensato che non sarebbe stata roba buona fino a che la mia mano non avesse preso la penna e cominciato a muoversi per conto suo.”
    Caro lettore, non saprei dire se tu sei reale o nella mia mente, non porgo al mio io sonnacchioso il quesito, non so capire se sei un’aspettativa o semplicemente una sagoma sullo sfondo. Mi piace ogni tanto pensarti come una compagnia onirica, come se tu, caro lettore, risiedessi in una camera affittata dentro di me. Io semplicemente mi parlo. Ogni tanto mi ascolto. Caro lettore questo non vuole essere un pezzo pretenzioso anche se vuole parlare di poesia quando la poesia non ne ha assolutamente bisogno. Perché allora? Forse perché è un gioco infantile ed elettrico della domenica mattina. “Io sono dipendente dal gioco dell’arte e della letteratura: i miei eroi sono artisti o scrittori”. Questo scrive Jim Morrison. La parola eroe non sono mai riuscito a comprenderla fino in fondo, preferisco rifarmi a degli esempi capaci di accendermi i neuroni come gli “accendi lampioni” di fine settecento, Jim Morrison rientra senza dubbio in questa categoria. Un esempio per intere generazioni ma un esempio diverso per ognuno. Il gioco prende forma: mentre sfoglio il libro a cura di Riccardo Bertoncelli e tradotto da Tito Schipa jr. “Jim Morrison: Tempesta elettrica, poesie e scritti perduti”, edito dalla Mondadori nel 2002… un turbine di suggestioni, come ombre cinesi, si accavalla sulla tela delle mie pupille, fino a toccare le corde dell’inconscio. Queste pagine vivono in tre dimensioni diverse. La prima dimensione è il luogo, ma è un luogo mobile, in continuo mutamento, la prima dimensione è, in una parola, la strada:
    La grande autostrada dell’alba / si stiracchia sonnolenta /
    sorge dalle sue avide / palme una spiaggia, da vagare.
    La strada scorre dritta a fare da tappeto alla grande velocità, fino a sdraiarsi su una spiaggia deserta, un’autostrada metafora di un sole che nasce, oppure si snoda lenta e inquieta tra bivi e incroci serpeggiando tra i chiaroscuri di una indecisione. L’istinto è sempre determinante in questi casi, sapersi bagnare un dito per percepire il vento o poggiare l’orecchio al suolo per ascoltarne il sussurro fatto di vibrazioni come facevano gli indiani, ascoltare la terra prima di ascoltare se stessi e prendere la giusta diramazione. La strada inoltre si fa portavoce dei luoghi che attraversa, prima di arrivare a ogni grande città c’è sempre un deserto da attraversare, e ogni città che si saluta con lo sguardo dallo specchietto retrovisore della propria auto, lascia il passo ad un deserto in cui tuffarsi. Ogni luogo rappresenta una stato onirico della coscienza, finché gli stati onirici si sovrappongono e il deserto lascia il posto all’oceano e l’oceano diventa un utero da cui nasce una città:
    Lei vive nella città / sotto il mare / prigioniera dei pirati /
    prigioniera dei sogni / voglio stare con lei / voglio che veda /
    le cose che ho creato / conchiglie che sanguinano.
    La seconda dimensione è popolata da animali di ogni tipo, spiriti guida che vegliano il confine tra reale e soprannaturale, dei guardiani capaci di dare consiglio se si possiede la sensibilità di ascoltarli, ma capaci anche di mordere per amore, mai per il gusto di farlo, se ignorati per troppo tempo. Troviamo “animali morti, ali bianche di conigli, un cervo di velluto grigio, galli che cantano e crotali, sirene da conquistare, un uccello di morte, uccel di preda, talpe e serpenti.” Molti serpenti… il serpente è un mantra che ritorna, è il nocciolo della questione, la morte da accudire: per riuscire a scorgere la compassione che si cela dietro la morte però serve l’aiuto del Lupo, altra figura ricorrente, con il suo ululato silente che è un invito a vedere e comprendere le zone d’ombra dell’esistenza:
    Il lupo / che abita sotto la roccia / mi ha invitato / a bere dalla sua fresca /
    acqua. / Non a tuffarmi o bagnarmi / ma ad abbandonare il sole /
    e a conoscere la notte arida del deserto / e gli uomini di gelo / che giocano laggiù.
    Siamo arrivati all’atto conclusivo di questo gioco che rende la mia domenica fertile di parole inutili, inutili come l’anima della poesia: “la vera poesia non dice niente, elenca solo delle possibilità. Apre tutte le porte. E voi potete passare per quella che preferite.” La terza dimensione è quella del nemico, il nemico riflesso nello specchio, privo della compassione della morte, il nemico siamo noi che la morte la temiamo, il nemico è il nostro malessere incarnato in sembianze demoniache e ambigue. Diamo così il benvenuto a spettri, ombre e angeli dispettosi, incontriamo Satana su un canale di Venezia che si confonde con la figura di un satiro, Satana che è “un’ombra incarnata della mia mente segreta.” Il nome muta, come il paesaggio ai lati della strada, come le sembianze diverse degli animali immaginari della ragione, anche in questo caso non importa se il nome sia Satana o Satirico, quello che conta è saper combattere contro i propri demoni. Imparare ad ascoltarci, a seguire l’istinto, imparare a cadere e, dopo aver preso il nostro tempo, imparare a rialzarci con la sabbia del deserto negli occhi:
    Un angelo passa correndo / traversa la luce improvvisa /
    traversa la stanza / uno spettro ci precede / un’ombra ci segue /
    e ad ogni nostra fermata / cadiamo.





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