La panchina di Mariella Forever

Eterocuriosa

racconto di luce allievi

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  1. luce allievi
     
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    “Devi darti una calmata!”
    Per tutto il giorno ho avuto l’impressione che tutti non mi dicessero altro.
    Me lo dicevano con quel tono di superiorità e di condiscendenza, come si fa con le povere pazze (una volta le lesbiche non le rinchiudevano in manicomio?).
    Così alla fine mi sono incazzata davvero.
    E ho preso fuoco.
    E hanno dovuto chiamare il Canadair.
    Bene.
    Di bene in meglio.
    Anche le poche amiche che ancora mi erano rimaste, dopo la scenata di stasera, faranno finta di non conoscermi quando m’incontreranno per strada.

    Sai qual è il lato comico di questa faccenda?
    E’ che più invecchio e più assomiglio a mia madre.
    Fuori di testa uguale.
    Solo all’estremo opposto.
    Io troppo lesbica, lei troppo etero.

    “Troppo etero”.
    Non la trovi un’espressione più moderna, più politicamente corretta rispetto a quell’altra espressione?
    Dovremmo adottarla.
    A partire da domattina, tutte quelle che si fanno sbattere da ogni maschio che capita a tiro non saranno più delle puttane ma delle “troppo etero”.
    E tutte quelle come me saranno delle “troppo lesbiche”.

    Si, mi devo dare una calmata.
    Mentre cammino nella direzione in cui cammino mento a me stessa, fingo di andare a caso, senza sapere dove.
    E, mentre mi trovo sotto il tuo palazzo, fingo di stupirmi di trovarmi qui.
    Le luci del tuo appartamento sono ancora accese.
    Rimango per un minuto a guardare la pulsantiera del citofono.
    Mi basterebbe voltarmi e fare un passo e poi un altro passo e poi un altro ancora …

    ”Chi è?”
    ”Ciao, sono Luce …”
    ”Ciao, Luce! Sali!”

    Mi sorridi dalla cima delle scale, sembri allegra, vestita con i pantaloni della tuta e la maglietta, con i capelli corti mezzi arruffati che ogni pochi secondi tenti di aggiustarti.

    ”Ciao bella … (bacio) … entra …”

    Ti seguo lungo il corridoio fino alla cucina.
    Sotto la maglietta non porti il reggiseno e sotto i pantaloni aderenti della tuta non porti nemmeno un filo di perizoma.
    Cazzo, perché sono sempre così arrapata?
    Devo impedirmi di placcarti contro lo stipite della porta della cucina, per infilarti le mani da tutte le parti.
    E neanche posso sbatterti giù a novanta gradi, sul tavolo ancora mezzo apparecchiato, per spantalonarti e scoprire quel tuo splendido culo.
    No, meglio pensare a cosa dirti per farmi perdonare se negli ultimi giorni non mi sono più fatta viva.

    Ascolti le mie scuse, sorridi, mi rispondi con un’alzata di spalle.
    Come se il fatto che io sia sparita e abbia smesso di corteggiarti t’abbia sollevata da un peso.
    Bene, dunque è così che stanno le cose.
    In qualche modo mi sento sollevata anch’io.
    Stasera proprio non me la sarei sentita di ricominciare con le solite menate, le solite ore di parole spese per confonderti e non farti più sembrare sbagliata l’idea di baciarmi.

    Sedute al tavolo della cucina aspettiamo che venga su il caffè.
    Il mio arrapamento di pochi minuti prima s’è ridotto a una più che sopportabile sensazione di umido nelle mutandine.
    Il che mi provoca una strana espressione sul viso, soprattutto negli occhi.
    Alcune mie ex fidanzate la trovavano un’espressione affascinante ...

    Alla fine mi sono calmata.
    Non c’è voluto poi molto.
    Una ragazza etero affascinata dal desiderio che io provo per lei e spaventata dal desiderio che lei prova per me.
    Un divano mezzo sfondato, su cui ce ne stiamo svaccate, spalla contro spalla, a parlare e a godere del contatto dei nostri corpi.
    Una bottiglia di tequila, da cui bere un mezzo sorso di sincerità ogni tanto.
    Una gatta chiamata Giuseppina, che se ne sta allungata sulla pancia della sua padrona e mi tocca con una zampa ogni volta che rimango per troppo tempo senza grattatarla dietro le orecchie.
    Una playlist di canzoni, che si succedono senza un ordine o una logica, dai Portishead a De Gregori, dai Muse a De Andrè.
    Un discorso, che procede più o meno a caso e cambia un po’ direzione al succedersi di ogni canzone.

    Non so se ho fatto bene a dirti che sono cotta di te.
    L’argomento ti interessa.
    Ma non capisco se l’interesse è per me o per le lesbiche in generale.
    Se è un interesse sessuale o se è soltanto un interesse “accademico”.

    Non so che idea ti sia fatta delle lesbiche.
    A volte pensi che siano delle ninfomani in cerca solo di sesso.
    Altre volte le immagini come delle Principesse Azzurre in cerca del grande amore.
    Io non so mai cosa dirti.
    Cioè, non riesco a spiegarti il senso di estraneità.
    A volte penso che non ci sia niente di reale.
    Cioè, ho vissuto amori che non mi era permesso vivere.
    Ho posseduto ragazze che non mi era permesso possedere.
    Posso ragionevolmente sostenere che questi rapporti siano stati rapporti reali?
    E sono reali i rapporti con le persone che mi conoscono?
    I ragazzi che lavorano con me, per esempio.
    Parlano con me perché mi trovano simpatica o perché mio padre è quello che paga i loro stipendi?
    Mi raccontano le barzellette sconce perché mi considerano una di loro o perché provano compassione per la povera figlia lesbica del capo?

    E pure tu, che c’hai un fidanzato da qualche parte, ma che te ne stai svaccata di fianco a me, con la tua maglietta fina che m’immagino tutto, con la coscia che si struscia contro la mia.
    Che cosa vuoi davvero da me?
    Perché mi guardi con quegli occhi?
    Perché mi parli con quella voce?
    Vuoi soltanto un po’ di attenzioni?

    Fra un po’, finita la bottiglia di tequila, finiti tutti i mezzi sorsi di verità che ancora rimangono da bere, mi alzerò da questo divano mezzo sfondato e ti dirò che ne ho le palle piene.

    Le palle piene di che cosa?
    Di tutti questi giochetti.
    Non sono capace a giocare.
    Non ho mai imparato a giocare.
    Non ho mai giocato, nemmeno quand’ero piccola.

    Quando a scuola c’era ginnastica, mentre aspettavamo che tutte finissero di cambiarsi, mentre aspettavamo che la professoressa finisse di prendere il caffè e di fumare la sigaretta in sala professori, facevamo sempre un gioco.
    Bisognava correre sulla trave di equilibrio, il più veloce possibile, senza cadere.
    Io ero sempre quella che correva più veloce, senza mai cadere.
    Alla fine del gioco non m’aspettavo che le altre mi portassero in trionfo.
    Mi sarebbe bastato un semplice “brava”.
    Invece nessuna mi cagava.
    Solo molto tempo dopo ho capito che la vera vincitrice di quel gioco non era quella che correva più veloce, senza mai cadere.
    No, la vincitrice era quella che faceva ridere di più le altre, era quella che faceva più la buffona e che prendeva più per il culo le sfigate che cadevano … o che mi umiliava con i suoi silenzi sprezzanti, perché prendevo il gioco troppo sul serio, perché non riuscivo a capire il reale senso del gioco.
     
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