La panchina di Mariella Forever

SUSANNA NON RIUSCIVA A DORMIRE UNA NOTTE DI MAGGIO

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    donna1SUSANNA

    Susanna non riusciva a dormire, una notte di Maggio. Con l'abatjour accesa e gli occhi puntati al soffitto, le ore passavano, in una sorta di isolamento mentale, nel silenzio. Le accadeva spesso, in prossimità degli esami da sostenere all'Università. La tensione le portava tristezza, le regalava un vuoto strano, incomunicabile, insormontabile. Beveva caffè e si lasciava andare sotto le lenzuola, arrotolata nelle coperte, aspettando il sonno che non sarebbe arrivato, in quelle circostanze.
    Con il televisore spento e la radio senza pile, con i giornali letti mille volte, contornata da libri e biografie, appunti e fotocopie, anche se avessero suonato al telefono, non se ne sarebbe accorta. Non avrebbe sentito i passi oltre il portoncino, le parole di un vicino, il campanello. Non aveva neanche la percezione del tempo. Ed erano già le tre di una notte senza luna, stellata e silenziosa. Nuda, attorcigliata su se stessa, teneva le mani al caldo delle gambe immobili. I pensieri, casuali, indipendenti e vuoti, ricadevano su cose e scelte, su persone e su storie. Dentro e fuori di lei, avveniva un balletto di episodi senza trama,
    si appesantiva il corso di laurea.
    La voce del padre e quelle bambole lontane, formavano una cornice dell'inconscio,
    come i fotoromanzi da ragazzina e le foto nascoste di attori spogliati, di cantanti solarizzati che sempre cantavano quello che non c'era.
    donna1.jpg

    Ed i pensieri, poi più lucidi, in un attimo di risveglio mentale, correvano a Francesco, alle sue belle mani, ai begl'occhi. Al suo modo d'essere, alla sua allegria, alla sua importanza. Al suo sesso pronto, disponibile, vivo. Forte, bello da ricordare, da raccontare, da ricercare. Bello da chiedere e da avere. Bello da sognare, da ingrandire, da fantasticare. Bello per poter dimenticare anche Giulio, per scalzare lo studio, per annientarsi.
    Ripercorreva domande chiuse, senza risposte. Ripercorreva i volti e le espressioni. Risentiva i sentimenti. Riviveva le sensazioni, quelle svelate e quelle nascoste. E quanti desideri, quanti sogni nel suo passato, quasi dimenticato. Quanti sorrisi allo specchio, in quei momenti dove la speranza raggiungeva la coscienza, sfiorava le certezze. Quanti sorrisi tra la gente, nelle ore di attesa, quando il libro delle sue scoperte si apriva alla pagina giusta, quando il volo del pensiero le pareva ardire ad altitudini inesplorate, irraggiungibili altrimenti, se non con il guizzo rapido della mente, l'intuito straordinario di un istante.
    L'istante intenso vale bene una vita di poco, ma Susanna, in quella notte sorda, sentiva crescere la rabbia per la paura di sbagliare. Il risveglio della coscienza la disturbò. Con scatto improvviso scalciò le lenzuola. Volarono oltre la sponda, si rovesciarono sul pavimento. Il corpo nudo non avvertiva il freddo, le mani strinsero la carne delle gambe, lasciando i segni delle dita. Non accettava di avere colpe, di essere fuori binario. Non accettava di essere più di niente, meno di qualcosa.
    Portò la fantasia al sesso, al suo ricordo, alle notti vissute con tali amici, compagni di secondi, complici nell'azzerare il tempo per così breve lasso. Complici nell'annullare la stanchezza, il vacillio del pendolo del cuore. Complici, andandosene, di riportare tutto al punto di partenza. Portò la fantasia al suo corpo, al suo seno inturgidito, portò le dita alla vagina assente, vuota di risposte. Fosse ancora bambina sarebbe stato più facile.
    I gesti meccanici non funzionavano, la mente non accompagnava la ritualità dell'erotismo. Susanna si sedette sul letto. Saranno state le quattro del mattino, e l'immagine riflessa allo specchio la turbò. Il volto inespressivo, visibilmente stanco, l'angosciò al punto da distogliere lo sguardo. Si alzò, a piedi nudi camminò per la stanza e nel breve corridoio. Si appoggiò alla maniglia del portoncino e, senza neanche capirne la ragione, l'aprì.
    Una leggera e fredda corrente d'aria l'investì. Il buio era assoluto, non si avvertivano rumori: l'intero palazzo era nel suo sonno. Chiuse, ma non si mosse da lì. La mano, ancora sulla maniglia, riaprì. Scrutò per curiosità, voleva distinguere, anche se impercettibilmente, le cose che ben conosceva. Sapeva che da lì ad un metro c'era il primo dei gradini della scala, il parapetto del pianerottolo ed a sinistra si poteva prendere l'ascensore.
    Quel fresco addosso la destò, l'aiuto a calmarsi. In pochi istanti anche il buio le sembrò familiare, qualche dettaglio si rivelava, come la riga arrotondata del corrimano. Un leggero chiarore veniva da sotto, dal piano terra, dove una vetrata dava all'esterno, sulla strada.
    L'unico abitante sveglio, ritenne, l'unico inquilino pronto a cogliere quell'intimità. Un nudo guerriero, l'ultimo guardiano di una fortezza. Le balenò un'idea, un po' pazza e maniacale: fare un giro per i corridoi delle scale, così com'era, senza neanche una ciabatta, un fermaglio per capelli, senza un fazzoletto. Fuori dal guscio, fuori da qualunque considerazione. Lasciò socchiusa la porta del piccolo appartamento e si discostò, avvicinandosi ad altre porte, altre abitazioni, altra gente nascosta. Nudo su nudo: la sua pelle, fredda, senza protezioni, contro la nudità dei muri, del cemento, del ferro delle ringhiere. Contatto protetto dalla penombra e dal silenzio.
    Una passeggiata oltraggiosa, una sfida alla sorte, al rischio non impossibile di fare incontri: un operaio in partenza ad esempio, un pendolare ancora assonnato o un'amante fuggitivo, un ladro, un'insonne come lei. Tutto era possibile.
    Una passeggiata assurda, come i labirinti umani, come i pensieri. Assurda, come lo sono i legami che stringono l'entusiasmo, che bloccano l'azione, che avvelenano i sogni.
    Quando l'ultimo portoncino fu sfiorato tornò indietro, rientrò in casa. Si strinse le braccia al petto, avvertendo per intero il freddo. Non si rimise nel letto. Per un po' alcuni pensieri vagheggiavano incerti nel compiere un percorso identificato. Perché fermarsi, perché non proseguire? Aveva bisogno di osare, di oltrepassare. Si sentiva stimolata nel cercare il limite esagerato, come se non appartenesse al mondo, come a voler conoscere qualcosa di imprecisato. Come un estraneo in sé.
    Mise la chiave nella toppa, come fosse un cordone ombelicale, l'ultima sicurezza, l'unico appiglio in caso di emergenza, di fuga imprevista, di precipitosa ritirata. Di nuovo immersa nel buio, di nuovo a respirare quel freddo dal basso. Sentiva i capezzoli indurirsi, la pelle corazzarsi. I piedi si gelavano sul marmo. Ma ad ogni passo la sicurezza la prendeva, o meglio l'ostinazione. Iniziò a scendere verso il piano sottostante, familiarizzando con la penombra. Riusciva ad orientarsi bene. Il silenzio la tranquillizzava, le dava certezza, era segno di possibilità. Il suo corpo, indifendibile, la rendeva fiera, le dava forza: esposto e nascosto al contempo. Era preda e predatrice, violabile e sovversiva.
    Appoggiò la mano sotto il seno, a sentire i battiti del cuore. Le fece impressione, sentendo la pelle d'oca, constatare che stava toccando un altro corpo, estraneo: insensibile. Proseguì, non le bastava essere scesa, doveva arrivare fin giù, vicino alla vetrata, vicino all'uscio, alla strada. Per un attimo il dubbio la prese ed il senso del ridicolo, dell'inutilità, si fecero strada, tarli violenti.
    Si fermò, riconobbe il portoncino dell'ingegner Nicolai. La sua insegna di ottone dava l'impressione di riflettere la pochissima luce che filtrava dal basso. Si chiese se l'ingegnere avesse mai potuto ipotizzare tanto, se fosse stato capace di condurre quello sciocco esperimento, di prendere freddo in cambio di niente. L'ingegnere sicuramente aveva altri progetti. E si sbagliava, ritenne Susanna. Si sbagliava, perché a farlo avrebbe conosciuto il mondo che non c'è, quello che non ha etichette, ma che riempie gli interstizi vuoti del nostro vivere.
    Riprese il cammino, in discesa, veloce, senza più ripensamenti.
    Arrivò giù, nell'androne, nello spazio più vasto, più chiaro. Distingueva bene le colonne, riconosceva il mosaico ad una parete, la pianta, alta e dal folto fogliame, posta ad angolo con il muro e vicino al cristallo che la separava dall'esterno.
    Un'auto passò veloce, i fari per un attimo schiarirono l'interno. Poi di nuovo penombra e silenzio. E solitudine. I lampioni esterni erano davvero fiochi.
    Susanna si accostò alla vetrata, vi appoggiò per qualche attimo il bacino, poi il seno, il mento, il corpo intero, con le braccia sollevate, le gambe divaricate. Era virtualmente in strada, così com'era, nuda dentro e fuori, esposta. Esposta come le prostitute danesi. Forse più: lei non recitava un ruolo, era realmente nuda, priva di una motivazione, di una scusa. Priva di una ragione. Per alcuni secondi chiuse gli occhi, attenta a mantenere l'aderenza al vetro.
    Dalla non lontana osteria, giù in fondo a quella stessa strada, non era poi così improbabile che da lì a poco qualcuno fosse passato per quel portico, ad un metro dalla vetrata, ad un passo da lei. Il ficus, vicino all'angolo dell'atrio, l'avrebbe protetta in tempo, supponeva, dalla vista ritardata di un ubriaco, dagli occhi assonnati e distratti di un amatore di ritorno ad una qualche casa. Ma neanche si chiedeva davvero in che misura stava rischiando qualcosa.
    Aveva raggiunto lo scopo, quello di sentirsi svuotata completamente, denudata anche nella mente, privata di qualsiasi proprietà. Un corpo buttato, rubato, come uno straccetto lasciato da Vincenzo, il portiere, che in una distrazione consumata se ne tornava a casa, dopo aver pulito l'androne e le vetrate, dimenticando l'oggetto.
    Oggetto!
    Ecco la parola che scontentò Susanna. Si chiese perché avesse mai fatto quella sciocchezza. Sentiva molto freddo, aveva male ai piedi, come congelati dal ghiaccio (tale le sembrava il marmo), aveva fastidio allo stomaco. Non c'era nessuna magia e tutto cominciava a rivelarsi sinistro ed inquietante. Il grande ficus, le colonne, la tromba delle scale: assumevano sembianze nemiche, presagivano minacce.
    Era ora di tornare in casa, di buttarsi nel letto, di riscaldarsi e dormire a lungo. Era ora di dimenticare quella notte senza senso. Il punto rosso dell'ascensore, del suo pulsante di chiamata, era a pochi passi. Non se la sentiva di tornare su a piedi, la stanchezza era un macigno sulle spalle. Temeva di sentirsi male, di non arrivare mai al quarto piano.
    Aprì il cancelletto e le due antine un po' cigolanti di quell'ascensore in stile. Fu subito dentro e spinse sul quattro.
    Il cuore cominciò a batterle forte, salì l'emozione. Si accorse che non avrebbe avuto più scampo, in caso di necessità. Era immersa nella luce dell'ascensore, una vera gabbia di vetro e legno, con struttura in ferro, così com'erano dotati i palazzi più vecchi. Le sue gambe, il seno, le natiche, tutto di lei era lì, ben visibile, perfettamente illuminato, senza possibilità di riparo. Senza potersi più nascondere o fuggire, non avrebbe potuto schermarsi. Si sentì smarrita e confusa, perdendo per qualche attimo la percezione della realtà. Respirò forte, a lungo: si sentiva svenire. Quella manciata di secondi, necessari a salire, furono interminabili.
    Esposta all'indiscrezione! Inerme, indifesa. Vinta, alla mercé: era questo che aveva cercato? Sentirsi persa, sentirsi tradita? Devalorizzata ed offerta? Chiuse ancora gli occhi, per non vedere, per non sapere.
    Ancora il cuore balzava, che l'ascensore terminò la corsa. Il corridoio era buio e l'unico rumore era dato dal suo respiro affannoso e dal cigolio, all'apertura delle porticine.
    Tardò qualche istante sul pianerottolo, aspettò che si spegnesse la luce dell'ascensore. Poi, di nuovo nelle condizioni iniziali, ed ideali, si sentì padrona, sicura. Si sentì fiera.
    A passi leggeri si avvicinò al suo piccolo appartamento e dopo aver dato un'ultima occhiata in giro, tornò dentro e chiuse per bene la porta. Era fatta!
    Dopo aver bevuto lunghi sorsi d'acqua, si guardò allo specchio, alzandosi un po' sulle punte, per dare slancio alle gambe. Contrasse l'addome, già piatto, respirando profondo, gonfiando il seno.
    Si buttò sul letto, accoccolandosi sotto la coperta morbida, a dare finalmente calore e riposo a quel corpo maltrattato.
    Davvero dormì a lungo ed al risveglio il ricordo del reale era misto a quello dei sogni.

    Giampietro De Angelis
     
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