La panchina di Mariella Forever

L'OPERAIO E LA BAMBINA DI FULVIO COLUCCI

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    L’operaio e la bambina

    A volte il coraggio si racconta attraverso l’amore. «Vede, se ho deciso di raccontarmi è per mia nipote di due anni. L’ho scritto: “darei la mia vita pur di farti camminare e correre come tutti i bambini meritano di fare… anche se devo ammettere che chi, oggi, dà a me la forza di camminare ed andare avanti sei tu”. Mia nipote non può usare le gambe, ma ha una grande volontà. Così, spesso, quando io gioco con lei guardiamo il mondo da un’altra visuale. Mia nipote conquista la vita, giorno dopo giorno; starle vicino cambia le cose. Perciò dico: in fabbrica bisognerebbe stare dalla parte dei figli. Io non ne ho, ma desidero averne. Perché i bambini cambiano la prospettiva delle cose». Non è senza nome l’operaio dell’Ilva ammalato di tumore e costretto a lavorare fino a qualche mese fa. «Chi pensa a me, al mio male, alle mie paure, agli anni in fabbrica, pensi a una persona che mi era amica, al collega Stefano Delli Ponti. E rifletta. Io sono nelle sue condizioni, per bisogno son tornato a lavorare in fabbrica un mese. Adesso sono a casa in contratto di solidarietà».

    Il giovane operaio si racconta con dolcezza, senza la rabbia che pure sospetteresti in agguato a ogni tornante della parola: «Lavorare a sessanta centimetri dall’acciaio liquido ha creato le condizioni per la mia sterilità. Le analisi hanno chiarito che avevo alcune cisti ai testicoli. In acciaieria le temperature oscillano da 800 a 1500 gradi. Nove anni così. Le ho provate tutte per avere un bambino. Altri colleghi vivono la stessa sofferenza. Io non ho vergogna a parlarne. Cinque anni fa ho presentato le domande di adozione nazionale e internazionale. Sono state accolte. Fa bene parlarne, fa bene a te stesso. Qualche collega ha cercato di adottare un bambino. Dovevo partire a dicembre scorso con mia moglie per il Congo, poi è successo il problema delle adozioni internazionali. La scelta è caduta sul Congo perché è un paese povero. Avremmo incontrato un bambino. La notte sognavo, fantasticavo. Sa, i bambini abbandonati mi fanno soffrire» .

    «All’ospedale “Moscati”, quand’ero ricoverato, ho visto i bambini ammalati di tumore. E ho pensato: cavolo! col mio lavoro faccio ammalare i bambini e i grandi. Ti senti responsabile se fai l’operaio in un’acciaieria. Non è facile perché vivi una sofferenza: lavori, ti ammali, si ammalano quelli che sono intorno a te. Un bambino malato mi fa soffrire. Mi sono detto: posso continuare a lavorare inquinando?».
    «In fabbrica è come in guerra: si ubbidisce agli ordini. Se un capo dice: lavora, tu inquini. Difficile sopportare. In passato nemmeno l’infortunio ti bloccava. A meno che non ti rompevi una gamba. Solo allora sentivi la “ferita” ch e fa male e l’assurdità di chi dice agli altri di continuare a lavorare, perché di te, magari, non gli importa».

    «Perché voglio ricordare Stefano Delli Ponti, parlando di me? Nel gennaio del 2013 ho fatto una visita di controllo. Hanno scoperto un grosso linfonodo vicino alla carotide. Il linfonodo è stato scoperto per caso. Mi sentivo debole, stanco; avevo mal di testa. Ho avuto dei problemi alla pelle. Sono stato ricoverato all’ospedale “Moscati” e al “Miulli” di Acquaviva. Infine al Policlinico di Bari. Mi chiedevano: dove lavori? Rispondevo: all’Ilva. Il medico diceva: non è possibile trovarsi in queste condizioni per il lavoro. I medici credono che i miei mali siano stati provocati da una probabile esposizione all’amianto e al silicio».
    «Nel mio passato ci sono la ghisa liquida a temperature folli, i capi che promettevano premi per le riparazioni fatte proprio sulla bocca del convertitore. Adesso è come se rivedessi un film. Il bisogno, ecco la parola. In realtà, anche se ti dicevano: avrai un premio economico, tu quel lavoro lo dovevi fare. Se rifiutavi, altre dieci persone erano disposte a farlo. Assurdo? Sì, ma non se hai paura di perdere il lavoro. E ancor più impauriti sono quelli delle ditte dell’ap – palto». «All’inizio avrei voluto anche impegnarmi dal punto di vista sindacale. Credevo possibile fondare un nuovo sindacato. Ma non me la sono sentita di alzare una bandiera per poi essere costretto ad ammainarla. Il 30 marzo del 2012 sono uscito con gli altri lavoratori dell’I l va per marciare sulla città. Ho fatto i blocchi stradali e ho occupato la direzione. Però non ho mai amato la protesta se non ha un fine. Ho visto lavoratori scontrarsi fra loro. La violenza mi fa schifo. E di quella stagione delle marce, dei blocchi, dei sequestri resta la rabbia. Non è servita a niente».

    «Ora – riprende a raccontare con calma l’operaio – in fabbrica, ci sono operai contro i quali si punta l’indice. Si sono esposti in prima persona e questa cosa non viene perdonata. Io dico: abbiamo perso un’occasio – ne. E c’è rabbia per come ha reagito, anzi non ha reagito, la città. Il ricatto occupazionale è nella nostra mentalità, ma la città? Il risultato del referendum mi ha deluso. Tutte le lotte che abbiamo fatto. Io lì ho pensato che non sono servite a niente. E poi troppe cose per sentito dire. Gli operai della provincia, i “paesani”, come vengono chiamati, amano l’Ilva. Non è vero. Ma come si fa ad amare una fabbrica dove ci sono posti come la discarica Mater Gratiae? Eppure le dico, il lavoro mi manca. Sì, lo so. Sentimenti contrastanti. Come la malattia: ha cambiato la mia vita in meglio. Sa perché? Se c’è un problema si affronta. Si cresce. Anche mia moglie cerca di tirarmi su. Cerchiamo di stare sempre vicini. Ma io so che soffre in silenzio».

    «Quando mi sono ammalato l’anno scorso, pur essendo lontano dalla fabbrica per le cure, i colleghi sono venuti a trovarmi ogni giorno al Policlinico di Bari. Hanno organizzato due collette, volevano aiutarmi. La prima è stata fatta dagli amici del reparto: mi hanno portato i loro buoni Auchan, quelli che l’azienda dà per premiare i risultati positivi ottenuti nei reparti dove sono diminuiti gli infortuni, pensi un po’. L’Ilva ha detto no due volte alle collette organizzate dai miei compagni di lavoro, ma a dicembre del 2013 la situazione si è sbloccata».
    «I colleghi non mi hanno lasciato da solo un giorno. Spesso ceniamo insieme. L’altra sera parlavamo. Ci siamo ricordati gli armadietti degli anziani, quando entrammo all’Ilva nel 2001. Erano pieni di foto della squadra, tutti insieme, spesso sorridenti. Oggi quelle foto sono scomparse. Negli armadietti ci sono le immagini di chi non c’è più. Gli operai morti per incidente o malattia. E ci sono le immagini dei santi: Sant’Antonio da Padova, i Santi Medici. La Madonna di Medjugorje».

    «Sì, io ero in squadra con Stefano Delli Ponti. Era uno che non si faceva mettere i piedi in testa. Pensi, faceva dei progetti per migliorare le condizioni nel reparto. Disegnò un aspiratore per eliminare la polvere, la fibra di ceramica che si disperdeva, spruzzata sul refrattario. Quanti operai hanno respirato quella polvere. Stefano portò i progetti agli ingegneri, ai capi reparto. Consegnava le carte, spiegava. Io sapevo che stava male e mi faceva soffrire l’indif ferenza nei suoi confronti ».
    «Un giorno, ero ricoverato al Policlinico, mi telefonò: “guarda che sto facendo casino, le mie condizioni di salute sono gravi. L’azienda deve risarcirmi. E tu?”. Gli risposi: appena posso mi muovo. Per lui, ormai, è tardi. Ma la sua battaglia dobbiamo portarla avanti. Non è solo questione di risarcimento. Stefano mi chiamava spesso. Un giorno mi avvisò: il carcinoma è degenerato, ma io continuo la mia battaglia. Dovevamo incontrarci, poi seppi che stava male. E’ il mio più grande rimpianto. Queste cose ti uccidono, ti fanno soffrire. Perché vedi un amico andarsene a 37 anni e hai paura che, prima o poi, toccherà a te. Ti rendi conto del male che ti scava e dici: il male esiste, inutile far finta di niente. E capisci quel che succede fuori e dentro di te».

    «Il giorno in cui Stefano è morto, mi hanno avvisato con una telefonata. Mi è crollato il mondo addosso. Pensai a me, ovviamente, alla malattia che può degenerare da un momento all’altro. Qualche collega, durante la colletta ha detto: i soldi? Ma se viene a lavorare. Io ho continuato a lavorare per bisogno. Mia moglie è disoccupata. Io non mi vergogno a dire che ho cercato, per due volte, di rientrare al lavoro, ma non ero idoneo. Dovevo lavorare per forza, ma non potevo stare al calore, non potevo respirare i fumi tossici. Fino all’ultimo ho fatto lo straordinario, altrimenti non arrivavo a fine mese. Il capo turno mi ha chiamato per sapere come stessi. Il capo reparto no. E il medico dell’infermeria a dire: siete come figli. Ma in fabbrica bisognerebbe stare dalla parte dei figli».

    «A novembre del 2013 ho ripreso a lavorare in un reparto, diciamo, più “pulito”. Ma non esiste posto sicuro. In molti punti smantellano l’amianto, ci sono gli acidi, i rotoli d’acciaio a temperature elevate. Ai miei nuovo compagni ho parlato. Mi hanno detto: impossibile che una persona nelle tue condizioni stia qui. Ho lavorato il triplo. Il caporeparto mi chiamava: ora riposati un po’. Ho aiutato gli altri. L’ho sempre fatto. Una notte ho sognato che al precetto pasquale degli operai salivo sull’altare e parlavo. Questa storia del dio degli operai, l’ho sentita tante volte. Poi ti prende lo sconforto. A che serve il precetto, la preghiera, se si continua a morire? In realtà questo sogno l’ho fatto dopo i funerali di Stefano Delli Ponti». «Io non me la sono sentita di mancare al funerale di Stefano. Per amicizia, e perché la gente capisse in tempo, guardandomi negli occhi, che vivo lo stesso problema e che bisogna comprendere fino in fondo. Non è stato facile andare in chiesa. Io non volevo la pacca sulla spalla. Così sono stato contento quando si sono avvicinati i colleghi chiedendomi che visite avessi fatto e dove potevano fare i controlli. L’Ilva deve rendere pubblici i dati sulle visite mediche dei lavoratori. Il cambiamento inizia da qui».

    «Con che spirito vieni a lavorare? Mi hanno chiesto i compagni di reparto prima che lasciassi la fabbrica. Penso di meno, ho risposto. Non voglio piangermi addosso. Abbiamo fatto amicizia ed è bello. All’inizio, dopo essermi ammalato, è stato difficile tornare; l’avevo presa male. Ora vivo la malattia quasi con naturalezza e non mi sorprendo più. Guardi che io non do tutta la colpa alla fabbrica. Gli incidenti sono causati anche da cattivi comportamenti dei lavoratori. E se si porta avanti una protesta bisogna essere responsabili. E’ un controsenso dire: l’inquinamento mi uccide e poi fumo venti spinelli. Perciò il test sulle droghe non va fatto solo a chi guida i mezzi in fabbrica. L’Ilva è una città: come puoi farti male fuori dalla fabbrica puoi farti male dentro e sei responsabile di te stesso ». «Non posso più abbronzarmi e mi dispiace perché amo il sole e vorrei portare a mare mia nipote. Faccio anche cure antidepressive. Il domani? Lo immagini in un modo, sei consapevole. Il domani ha il volto di mia nipote, il volto del bambino che vorrei adottare. Taranto poteva cambiare, ma non si cambia una città con i decreti. Ecco perché dico, a chi sta in fabbrica e fuori che bisogna stare da una sola parte. Dalla parte dei figli».
    Fulvio Colucci
     
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